Usa: che fine hanno fatto le proteste universitarie per la Palestina?


L’incomprensibile passione politica di una generazione di attivisti che potrebbe decidere il prossimo presidente degli Stati Uniti.


È circa un mese che i media italiani non parlano più delle proteste nelle università statunitensi a favore della causa palestinese. A dire il vero, per la portata del fenomeno, la copertura ha lasciato molto a desiderare. Era dal Sessantotto che un movimento così radicato nelle università non riusciva, dalla West Coast alla East Coast a mettere dalla stessa parte gli studenti delle prestigiose università della Ivy League e dei Community Colleges. Novecento arresti solo nel mese di aprile, saliti a oltre duemila a maggio. Numeri che non hanno smesso di salire con l’arrivo della fine dell’anno quando, anziché sgomberare gli encampments, i giovani statunitensi solidali con la causa palestinese hanno cominciato a diffondere le loro proteste durante le solenni cerimonie di laurea, interrompendole e prendendo la parola.

Cosa vogliono?

«There’s something happening here, but what it is is ain’t clear… Young people speaking their minds are getting so much resistance from behind» cantavano i Buffalo Springfield già nel 1966, quando gli Stati Uniti erano agitate dalle proteste per i diritti civili e, nelle università, si preparava l’effervescenza che due anni dopo avrebbe caratterizzato le grandi proteste del 1968.
In quell’occasione, sulla scena politica  internazionale era comparso un soggetto politico nuovo, la gioventù, che le generazioni precedenti facevano fatica a decifrare. Insondabile appariva ai loro genitori, che avevano vissuto la loro età in condizioni di stress e povertà legati alla Guerra Mondiale, l’agitazione di quei figli che avevano avuto il privilegio di studiare e che di lì a poco avrebbero ottenuto l’accesso ad un mondo del lavoro ricco di opportunità in tutto l’Occidente capitalista. E che, invece, decidevano di usare quell’istruzione per prendere la parola contro la società dei consumi che lucrava sulle loro passioni e identità, declinate in un inedito tempo libero della vita, contro la guerra in Vietnam e dalla parte dei popoli oppressi del cosiddetto Terzo Mondo.
Con prospettive del tutto diverse rispetto al proprio futuro si muove il movimento universitario per la Palestina, tanto in Italia quanto nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, nato all’indomani della brutale risposta che l’esercito israeliano a dispiegato a Gaza e in Cisgiordania all’indomani degli attacchi del 7 ottobre, uccidendo decine di migliaia di palestinesi e dimostrando di aver oltrepassato la soglia del genocidio secondo autorevoli giuristi internazionali, fra cui la special rapporteur delle Nazioni Unite, Francesca Albanese[1]. La consapevolezza di un futuro precario che accompagna una generazione di giovanissimi entrati nel sistema scolastico in piena crisi del 2008, unita ad un’idea di valori diversi, legati ai diritti civili e intrecciata fortemente al movimento Black Lives Matter che comprensibilmente decifra la questione palestinese in termini razziali e coloniali, non può essere rappresentata come un’ondata spontaneista di antisemitismo.

La protesta non si è fermata

Mentre in Italia gli studenti hanno pressoché abbandonato gli accampamenti che avevano montato per le proteste con l’avvicinamento della sessione estiva, pur avendo dato luogo ad ampi momenti di dibattito e ottenuto importanti dichiarazioni e impegni dai rettori per il disinvestimento rispetto alla cooperazione con le università israeliane e le istituzioni italiane che fomentano l’industria bellica, negli Stati Uniti sono in molti i college che continuano a resistere.
A Stanford, durante la cerimonia di laurea, centinaia di studenti pro-Palestina si sono alzati in piedi sulle rispettive sedie, prima di riversarsi nello stadio adibito per la consegna dei titoli, per poi dare luogo ad una contro-cerimonia alternativa, durante la quale hanno rivendicato le proteste dei mesi precedenti.
La repressione oltreoceano è stata ben più dura che da noi. Solo questa settimana, nello stesso campus, sono stati arrestati 13 studenti, senza contare le sospensioni elargite in massa e, per i senior, la sancita impossibilità di laurearsi[2].
Contemporaneamente, dopo lo sgombero di maggio che ha visto finire in manette oltre 130 attivisti alla UCLA (University of California- Los Angeles), un tentativo di ricostituire l’accampamento ha portato il numero degli studenti detenuti a 157[3].

Leggi anche:

La questione palestinese e le elezioni presidenziali

Anche a Washington, nonostante la partecipazione di numerose associazioni ebraiche che si oppongono al genocidio in corso, viene riconosciuta ampia copertura alla presunta anima anti-semita delle proteste. Il Campus Antisemitism Report Card dell’Anti-defamation League ha, in questi giorni, declassificato diversi atenei, fra cui la UCLA, la Northwestern University e l’Università del Michigan, valutandone il livello di accoglienza rispetto agli studenti ebrei[4].
Nel frattempo, tuttavia, l’attenzione di chi segue la corsa alla Casa Bianca non può tralasciare la questione palestinese che, in termini di portata elettorale, avrà un peso consistente: mentre Donald Trump rischia di diventare il primo presidente condannato al carcere in piena elezione nella storia degli Stati Uniti, Joe Biden continua ad appassionare poco l’ala più progressista dell’elettorato democratico, la quale già una volta, nel 2020, aveva seguito le indicazioni di Bernie Sanders, unendosi ai più moderati nello sforzo di battere il candidato repubblicano, considerato una minaccia per l’esistenza stessa della democrazia nel paese.
Il 42% degli elettori democratici, infatti, ha dichiarato di avere a cuore la questione palestinese. Biden ha ogni motivo di sperare che lo sterminio a Gaza si fermi,  ma l’autonomia con cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu sembra star assumendo ogni decisione depone sicuramente a sfavore dell’unità dem[5].
L’elezione, fra gli altri, di Milei in Argentina, i risultati delle elezioni europee che hanno portato alla convocazione delle legislative in Francia, sembrano suggerire una certa stanchezza nelle democrazie occidentali chiamate continuamente a scegliere tra un candidato dipinto come il “Male assoluto” ed un’alternativa che non riesce a rispecchiare i valori democratici che sono alla base delle stesse democrazie. Gli oltre trentamila palestinesi morti potrebbero incarnare, loro malgrado, non solo la cartina di tornasole di questa ipocrisia strutturalmente insostenibile, ma anche l’ago della bilancia di molti dei processi elettorali in corso.


Note

[1] https://www.aljazeera.com/program/newsfeed/2024/3/26/reasonable-grounds-to-believe-israel-committing-genocide
[2] https://www.latimes.com/california/story/2024-06-16/hundreds-of-pro-palestinian-students-walk-out-of-stanford-university-graduation
[3] https://www.foxnews.com/us/anti-israel-protesters-police-set-up-new-encampment-ucla-clash-police
[4] https://www.usatoday.com/story/news/education/2024/06/17/education-department-michigan-city-university-gaza-protests/74130843007/
[5] https://arabcenterdc.org/resource/the-gaza-war-still-can-decide-the-american-presidential-election/


Foto copertina: Proteste pro-Palestina nelle Università Usa